Sezioniamo le storie per cercare il filo rosso che le tiene unite. Più la storia è lunga, più ci sembra incredibile che qualcosa possa tenere insieme delle persone per tanto tempo. Vorremmo conoscere il segreto della durata che sta dietro a quell’impegno. Il desiderio, non espresso, è che la ricetta sia ancora valida, anche a distanza di anni. 
Le imprese culturali, però, non hanno la coerenza delle industrie. I bilanci sono spesso in perdita, e il racconto non si snoda tra risultati di vendita, ma tra storie umane.

Con l’avvicinarsi dei cinquant’anni di attività e in concomitanza con un bando per la digitalizzazione, Vittoria Ciolini e Andrea Abati mi hanno chiesto di collaborare alla riorganizzazione dell’archivio di Dryphoto.

Superato il primo timore, sono tornato ad occuparmi di una storia a cui ero profondamente legato e sulla quale mi ero formato. Ho quindi riletto la mia tesi di laurea, dedicata proprio alla storia di Dryphoto. Tornare sulle proprie riflessioni dopo quindici anni significa confrontarsi con la propria ingenuità giovanile.

Nel 2009 colsi solo una piccola parte dell’unicità di un percorso che è ancora in divenire. In quel testo collegai l’attività dello spazio pratese con la scuola italiana di fotografia di paesaggio, nata attorno a Luigi Ghirri. Fin dal titolo ne ridussi la portata innovativa a un’avventura di provincia. Usai un setaccio critico troppo stretto, che perdeva di vista l’impatto complessivo di uno spazio che, fin dall’inizio, non voleva essere parte solo del sistema dell’arte. L’elenco delle mostre dei primi vent’anni faceva intravedere la quantità di legami che la galleria aveva creato. Nel titolo della tesi ho definito quella di Dryphoto un’avventura di provincia ma è proprio in ambienti lontani dalle pressioni del mercato e dalle aspettative dei grandi centri che è più probabile che un artista, ma anche un operatore, si prenda dei rischi.

Dryphoto non è un soggetto conforme al sistema artistico: nasce dai movimenti della sinistra extraparlamentare e si intreccia con le istanze dei movimenti femministi. Tutto avrebbe fatto presagire che ad un certo punto ci sarebbe stata una spaccatura interna. A unire l’associazione sarà la decisione di usare la fotografia come lente per interpretare la società, fermandosi sui segni lasciati nel paesaggio, dal calcio ai comizi politici. La realtà non andava spettacolarizzata o vissuta come un safari di caccia. Gli insegnamenti di Ghirri e Vaccari dovevano servire a leggere un presente che non si incasellasse nelle formule o in una bella stampa.

La prima volta che ho messo mano sui materiali della galleria non esisteva nessun archivio. Con l’entusiasmo del ricercatore aprivo faldoni con i materiali messi in ordine, quell’organizzazione rigorosa in cartelline che arrivava da chi è abituato a lavorare nel commercio. Ed è grazie a quell’attenzione da ragionieri (e a una certa passione per la conservazione) che, a distanza di 50 anni, oggi è possibile passare in rassegna oltre 12.000 materiali, perché fin dall’inizio c’è stata una serietà organizzativa consapevole che ciò che si stava facendo aveva una propria coerenza.

Passando in rassegna, anno dopo anno, le esperienze e i laboratori, colpisce l’instancabile programmazione, che fin dagli inizi aveva un calendario stagionale e almeno quattro mostre l’anno. Il confronto era con l’attività degli spazi europei, e il rigore è proprio di chi arriva dal mondo del lavoro. Il gruppo fondativo di Dryphoto è composto da lavoratori che portarono serietà a un’attività che non voleva essere solo ricreativa.

A inizio anni Ottanta quel gruppo voleva che anche a Prato arrivasse il dibattito che si sviluppava in quel momento negli Stati Uniti sulla fotografia a colori. Una fitta corrispondenza che attraversava i continenti ci restituisce anche la difficoltà di far arrivare le opere, così come l’insofferenza dei curatori per i ritardi nei pagamenti.

A questo si affianca l’urgenza di dotarsi di strumenti teorici e di avviare un percorso collettivo, aperto anche alla città, come dimostrato dall’apertura di uno spazio biblioteca.

Negli anni si è rafforzata la consapevolezza di essere indipendenti e di poter incidere con la propria voce critica sulla realtà. Dall’immagine meccanica fino all’arte contemporanea, Dryphoto si è sempre confrontata con le questioni del presente, intraprendendo negli anni 2000 la strada della galleria commerciale. La conferma che le proprie scelte sugli autori e sui linguaggi avevano trovato riscontro nel mercato ha dato anche la tranquillità di uscire da un campo da gioco percepito come non proprio.

Per me non c’è una formula o una matrice che spieghi la durata dell’attività di Dryphoto. Tutto viene fuori da un dosaggio non bilanciato di fiducia nel futuro e controllo marxista dei mezzi di produzione o, detta in modo più prosaico, utenze e affitti. A livello di sostenibilità economica infatti, Dryphoto ha saputo inventarsi percorsi di finanziamento attraverso la formazione e con i bandi pubblici della Regione Toscana.

Dryphoto è riuscita a trovare modalità sempre nuove di rappresentare la realtà, senza fermarsi solo alle formule come interrogazioni o dialoghi. Ma, soprattutto, senza farsi imbrigliare dall’eredità storica del riconoscimento intellettuale di Ghirri. Questo avrebbe comportato il rischio di far coincidere il proprio percorso con quello della fotografia italiana.

La galleria ha saputo utilizzare quell’“insistenza dello sguardo”, di cui parlarono Costantini e Zannier, per confrontarsi con una rappresentazione del mondo in cui l’estetica si intrecciava con le battaglie per i diritti. Queste battaglie, combattute negli anni Settanta, si ripresentano oggi con nuove voci e protagonisti provenienti da altre parti del mondo.

Nei documenti programmatici, nei bilanci e nelle lettere ai soci, traspare la consapevolezza del proprio ruolo: provare a creare qualcosa che fosse alternativo a un sistema del lavoro vissuto come soffocante.

Dryphoto ha spesso avuto uno spirito militante nell’organizzare le sue attività. Non poteva essere altrimenti, considerando che i fondi e il tempo dedicati all’attività erano sottratti alla propria vita. A livello teorico, Dryphoto non ha mai voluto limitarsi alle idee dei suoi fondatori, ma si è ibridato nel confronto con artisti, intellettuali e studiosi, mantenendo una coerenza in evoluzione.

Rileggendo i documenti, una storia così lunga obbliga a sorprendersi per la quantità di volte in cui si sarebbe potuto mettere la parola fine. Tanti progetti non hanno trovato finanziamento (Warhol, ad esempio), tanti esordienti hanno poi abbandonato la fotografia. Ma anche quanti progetti hanno anticipato il dibattito contemporaneo e, all’epoca, furono visti come tentativi intellettuali di chi “non voleva le belle fotografie”.

Ho chiesto all’intelligenza artificiale di sintetizzare la storia di Dryphoto partendo da quello che trovava online. Come prevedibile, mi sono state restituite formule ormai consumate e logore, come “Dryphoto ha saputo evolversi nel tempo, adattandosi ai cambiamenti del contesto sociale e culturale, ma mantenendo sempre fede ai principi fondativi che ne hanno guidato la nascita.”

Per me, Dryphoto non si è adattata, ma ha saputo ricostruire i suoi principi lungo il percorso, senza preoccuparsi troppo di stare dalla parte giusta. Pur tenendo sempre al centro Andrea Abati e Vittoria Ciolini, il gruppo alla guida è cambiato decennio dopo decennio, conservando però quella capacità di coinvolgere autori giovani e l’interesse per un paesaggio che era comunque spazio dell’attività umane e non semplice cornice degli eventi. 
La fedeltà a un’idea avrebbe rallentato, fino a impedire, la possibilità di dialogo. L’avere invece una serie di domande aperte ha permesso di essere connessi a una realtà che cambiava.

Negli ultimi dieci anni ho osservato il percorso di Dryphoto dall’esterno, notando come la spinta ad agire sul presente sia sempre stata più importante del celebrare le attività e i traguardi raggiunti. Fare le cose, piuttosto che dire di averle fatte, e lasciare visibili gli errori senza intervenire in un’opera cosmetica sul proprio percorso.

Quella di Dryphoto è quindi un’esperienza riproducibile? Lo è già, in tutti quegli spazi che provano a operare al di fuori di ogni controllo e istituzione. La ritroviamo negli spazi animati dal collettivo indonesiano ruangrupa a Documenta XV Kassel o nella pratica artistica di Theaster Gates. I punti di contatto che vedo sono legati all’impossibilità di rispondere alla domanda: “Che cos’è Dryphoto?” È uno spazio autogestito? Una scuola? Un archivio? Non è né solo una galleria né un’associazione culturale. È tutte queste cose insieme e, al tempo stesso, nessuna di esse.

Ripercorrendo la sua storia, emerge un continuo tentativo di rispondere ai cambiamenti della realtà, ampliando il pubblico al di fuori del sistema dell’arte, con laboratori nelle scuole, nei centri professionali e nei centri di salute mentale.

Rinunciando a un’autorità curatoriale forte, i fondatori hanno permesso ai progetti di Dryphoto di essere adottati dal pubblico e di trasformarsi. Questa sconsiderata apertura è forse la vera chiave della durata di Dryphoto, una caratteristica così umana che l’intelligenza artificiale non riesce ancora a cogliere.

Mario Pagano, Melbourne, 24 ottobre 2024

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